Sunday, March 21, 2010

Signori, volete ascoltare un bel racconto di amore e di morte?

Partir (L’amante inglese)
Catherine Corsini, 2009
Kristin Scott-Thomas, Sergi López.

“Signori, volete ascoltare un bel racconto di amore e di morte?”

Questo è l’inizio del Tristano e Isotta di Bédier, che riscrive all’inizio del ‘900 il famoso ciclo di romanzi medioevali. In effetti di cos’altro si può parlare o si è parlato di più? Dell’amore e della morte, dell’adulterio, della lotta tra il desiderio fisico e il desiderio di serenità, sicurezza e stabilità.
Il sesso che irrompe e sconquassa le norme sociali, il malessere della cultura additato da Freud.
La splendida Kristin Scott-Thomas, a 50 incredibili anni, incarna la moglie un poco annoiata ma rassegnata di un medico di successo in una piccola località del sud della Francia, hanno due figli oramai adolescenti. Suo marito si chiama Rèmi, è un uomo rispettato nella buona società locale, molto in carriera e attivo anche politicamente. Pare che entrambi non pensano più al sesso da un bel po’, hanno troppo da fare tra gli impegni professionali e badare ai figli. Hanno raggiunto un equilibrio apparentemente soddisfacente che gli consente di convivere senza passione.

In questo contesto appare un muratore spagnolo, Iván, che viene a turbare la quiete e sveglia i sensi di Suzanne. Lei si sente enormemente attratta da Iván, lui reagisce in maniera semplice e diretta. Lei si innamora follemente, lasciando perdere ogni apparenza di normalità o finzione, senza curarsi di quello che possano pensare figli, marito, amici, al punto che abbandona tutto e va a vivere con lui.
Ivan è un uomo separato, con una figlia che vive con sua ex-moglie in Spagna, nei Pirinei catalani, è stato in carcere per furto e vive alla giornata con lavori di muratore o in campagna. Si dice che quando la povertà entra per la porta l’amore salta dalla finestra. In effetti la situazione economica, che il marito tenterà di rendere insostenibile con scarsa cavalleria, mette a dura prova gli amanti.
Ma non mollano, sino ad arrivare alle ultime conseguenze.
Il film inizia con un piano di Suzanne e suo marito a letto, lei sveglia, lui dorme. Lei è in uno stato di estrema agitazione, si alza nella notte e suona uno sparo. Alla fine del film arriviamo finalmente a questa scena, ma stavolta ci viene raccontata completamente, lo sparo parte da un fucile che imbraccia Suzanne ed è diretto al cuore di suo marito. Suzanne non ha scelto la sua morte, ma la vita, anche se la sua vita con Ivan probabilmente non durerà.
Il film finisce lì, in mezzo ai monti, alla natura che ha le proprie regole, quelle del desiderio.



“La verità di un corpo è la sua nudità. Allo stesso modo la verità di un luogo è la sua complessione fisica originaria”
Gesualdo Bufalino, Cento Sicilie.

Il futuro probabilmente non sarà roseo per i due amanti, la società si vendicherà ed entrambi andranno in prigione, però niente di questo importa per un momento. Sono loro due con un bicchiere di vino, abbracciati così stretti da sentirsi uno nell’altro.

“Forte come la morte è l’amore”.
Così dice il Cantico dei Cantici.

Tu cosa ne pensi?

Sunday, February 28, 2010

I am the master of my fate

Invictus
Clint Eastwood, 2009
Morgan Freeman, Matt Damon


Out of the night that covers me,
Black as the Pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds, and shall find, me unafraid.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll.
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.


Questi versi di William Ernest Henley sono il fulcro dell’ultimo film di Eastwood, forse sono anche una buona rappresentazione di quello che ha tentato di dirci durante la sua oramai lunga carriera come regista (questo è il 33esimo film che ha diretto) e della sua Weltanschauung. Bird, Unforgiven, Gran Torino ci parlano con particolare forza di questo concetto chiave per Eastwood, la libertà individuale. I suoi film sono quello che più si approssima ai racconti di John Ford nel nostro mondo moderno. Ma Eastwood non si è limitato a fare dei western, sebbene ne abbia fatto diversi, ma ha creato western in ognuno dei generi cinematografici: questo è un western epico, sportivo e quasi religioso. A momenti sembra un racconto storico sulla conquista della libertà in Sudafrica, altri un’epopea sportiva, certe volte la storia di Gesù-Mandela.
La storia comincia con immagini di archivio, finte e vere, che mostrano la liberazione di Nelson Mandela-Morgan Freeman l’11 Febbraio di 1990 dopo quasi trent’anni di prigionia. In 1994 Mandela raggiunse la presidenza della repubblica sudafricana e guidò la transizione dall’Apartheid alla democrazia.
Questo è lo sfondo storico. Il racconto che guida il film è la celebrazione dei Mondiali di rugby in Sudafrica in 1995 e come Mandela usò questo evento come strumento di unificazione del paese grazie alla sorprendente ed eccezionale performance del team sudafricano, che vinse il campionato anche se non era tra i favoriti alla vigilia.
Abbiamo detto prima che per certi versi sembra un’epopea storico-religiosa: dopo essere derubato della metà della sua vita, Mandela riuscì a farsi portavoce di una nuova politica di perdono, di tabula rasa, per ricominciare da zero e ricostruire non soltanto l’economia ma soprattutto le relazioni tra le persone che sino a quel momento si erano odiate. Mandela non ha una falla in questo suo obiettivo, lo insegue senza sosta, senza tentennamenti, senza deviazioni. Ma non è un santo, come spesso succede agli eroi di Eastwood la sua vita familiare è un disastro: separato, non ha un buon rapporto con sua figlia.
Il film ci fa partecipare a questo momento della storia del Sudafrica dal punto di vista di Mandela, non tanto in quanto uomo politico ma come persona, che si alza prima dell’alba, fa una passeggiata, fa colazione, pensa e da queste riflessioni trova la forza per compiere le azioni che ritieni giuste. Ci dice come un uomo può trovare in se la forza necessaria per sovrapporsi prima alla tortura e l’ingiustizia, e dopo per spingere un paese nella direzione che crede giusta.
In parallelo scorre la vicenda sportiva, dove l’epopea storica trova un mezzo e un riflesso. Il rugby è uno sport praticamente sconosciuto negli Stati Uniti e non molto sviluppato in Italia, ma ha una forza impressionante nel mondo anglosassone e in Francia. Il periodo in cui si situa l’azione coincide con l’apice della popolarità e la forza mediatica del rugby nel mondo, grazie alla presenza di un campione senza paragone: il neozelandese Jonah Lomu. Lomu compare nel film di sfuggita e la sua controfigura non può che far ridere a chi ha visto in azione il vero Lomu, quindi per chi non lo conosca, vale la pena vedere in questo filmato come giocava questo gigante di 1,96 e 120 kg di peso in grado di correre i 100m in 10,9 e portarsi via come un treno i giocatori che tentavano di fermarlo:

http://www.youtube.com/watch?v=OsXTa7UCGlk

La vicenda di Lomu non ha spazio nel film, ma è anche interessante. Questo gigante che spazzava via gli avversari come briciole fu sconfitto dalla malattia, poco anni dopo gli eventi che racconta questo film Lomu dovette abbandonare lo sport a causa di una forma rara di nefrite e solo dieci anni dopo è riuscito a tornare a fare una vita normale.
Fin qui gli aspetti positivi del film, che sono tanti, però purtroppo sono presentati attraverso un linguaggio cinematografico quasi banale, re iterativo, che fa uso dell’immagine rallentata senza necessità, disegna caratteri di una semplicità infantile e infine porta ad una conclusione scontata dall’inizio. Questa nuova versione del Maverick Eastwoodiano non rimarrà nella memoria nonostante la pubblicità che ha ricevuto (o proprio per questo) ma va riconosciuta a Clint la coerenza e l’opportunità di parlarci in questo momento del valore della libertà e della nostra responsabilità.

Tuesday, February 09, 2010

Meritarsi il nulla

Up in the air
Jason Reitman, 2009
George Clooney, Anna Kendrick, Vera Farmiga.

Juan Carlos Onetti ha scritto che “svegliarsi è accettare la sconfitta dopo aver lottato brevemente per meritarsi il nulla, quindi rassegnarsi a sentirsi esattamente conforme alla concavità della propria disgrazia”.
Forse Ryan, il personaggio che incarna egregiamente George Clooney in questo film, non sarebbe in grado di formularlo così, però è il vuoto quello che noi spettatori sentiamo quando lo incontriamo, ed è anche il nulla quello che la camera ci lascia nella retina quando lo salutiamo alla fine della sua unica breve avventura vitale, nonostante una breve illusione di riscatto all’americana che - fortunatamente per l’economia del film - non ha successo. Lui “ha in mente un numero”, 10 milioni di miglia, in una cornice grigia di metallo e plastica che lo accompagna ovunque.
I titoli iniziali del film sono brillanti: segmentazioni geometriche dello schermo su paesaggi aerei di panorami vuoti, girati verso l’ocra e il grigio, colori privi di brillo, panorami del centro e middle-west americano, geometriche città anonime senza centro, enormi campagne automatizzate, porti industriali. Apparentemente questo dovrebbe essere il suo sfondo sociale: la crisi attuale e l’enorme impatto in termini di sofferenze personali che sta producendo, oltre i numeri e i crack che risuonano nei titoli dei telegiornali. Tuttavia questa critica sociale non riesce ad andare avanti, appena ci identifichiamo con le persone che vediamo pregare, arrabbiarsi o addirittura prepararsi per il suicidio, perché la potenza del personaggio di Clooney è tremendamente coinvolgente.
Questo film di Rietman è una bella sorpresa. E’ un grande piacere osservare George Clooney che riempie lo schermo senza tregua donando un volume significativo a questo lavoro che altrimenti forse sarebbe stato giudicato semplicemente “carino”.
Ma l’argomento del film non è affatto carino, parla della disgrazia, delle bruttezze della vita. Henry James scrisse ai suoi figli ancora giovanissimi questo paragrafo terribile:

Every man who has reached even his intellectual teens begins to suspect that life is no force; that it flowers and fructifies on the contrary out of the profoundest tragic depths of the essential dearth in which its subject´s roots are plunged.
The natural inheritance of everyone who is capable of spiritual life is an unsubdued forest where the wolf howls and the obscene bird of night chatters


Così Rietman ci racconta dell’assenza di verità dei nostri rapporti personali; della necessità con la quale nella vita compaiono ineluttabilmente bruttezze che è impossibile allontanare e con le quali dobbiamo convivere; dei compromessi dell’amore; della superficialità di questa vita moderna che ci siamo costruiti; della velocità adorata per i futuristi e la contemporaneità degli eventi che ci circondano e riusciamo a gestire ma forse non a vivere.
La teoria della relatività dimostra che il tempo dipende dalla velocità con la quale si muove il soggetto rispetto al sistema di riferimento, più veloce ci muoviamo più lentamente trascorre il tempo. Ma questo mantra che ha ossessionato la modernità perde il suo senso quando è tutto il sistema a muoversi alla stessa velocità, questa frenesia generale non pare che riesca a detenere il tempo e stiamo già tornando ad ambire il suo congelamento, il lentissimo ticchettio dell’orologio in un luogo immobile che descrive ad esempio Thomas Mann in “La montagna incantata”.

Epilogo: chi sapesse camminare come cammina George!!!